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Fare in Albania quello che non si sa fare in Italia?

di Vittorino Beifiori

Ispirandosi al primo ministro inglese Sunak, ma soprattutto a Suelle Bravermann, ministro degli interni, figlia di immigrati, che aveva chiesto senza successo di deportarli in Ruanda, e che per ora si accontenta di combattere gli homeless togliendo loro le tende "per lo stile di vita che hanno scelto", la nostra prima ministro si è inventata di collaborare con l'Albania. Delusa, giustamente, dall'UE, ha deciso di fare da sola. Innanzitutto questa decisione è l'ammissione di non essere in grado di affrontare il problema dopo un anno di governo. Un fallimento. Poiché la stampa riferisce che tutto in Albania avverrà sotto la completa responsabilità dell'Italia, l'Italiano comune, magari non intelligente come i suoi stretti collaboratori, si chiede se il governo saprà fare in Albania ciò che non sa fare in Italia, se i diritti dei Naufraghi saranno garantiti, se i costi saranno superiori e inferiori a interventi fatti sul patrio suolo, dove andranno i localizzati in Albania dopo i 18 mesi, o meno, di permanenza, se sarà più facile modificare gli accordi di Dublino, se è vero che la Germania e la Francia, io ne dubito, apprezzano quanto fatto dall'Italia e si predispongono a seguirne l'esempio, ecc.
Lo stesso Edi Rama ha dichiarato: "Non so se l'accordo sui centri per immigrati funzionerà, ma all'Italia non diciamo di no. Abbiamo un debito di riconoscenza, che non potremo mai saldare, ma che non dobbiamo dimenticare" (Fanpage.it).
Mi sovvengono gli Ascari, i soldati indigeni dell'Eritrea, arruolati volontariamente nel regio corpo di truppe coloniali. Ma anche l'art. 80 della Costituzione, che sbrigativamente i consiglieri del capo del governo e perfino il ministro della giustizia hanno dichiarato fuori gioco. A Zevio vige il proverbio: "Impara a pararte via le mosche da solo".

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