Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

La guerra
per un simulacro?

Franco Fregni

Il mito si dirama in mille rivoli. La guerra di Troia - la più grande guerra mai combattuta e fonte dell’Epica -, scoppiò perché Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, fu condotta a Troia dall’amante Paride. Per vendicare l’affronto Agamennone, re dei re e fratello di Menelao, radunò gli eserciti degli achei e guidò l’attacco a Troia. Altri cantori narrano invece che Elena, dopo la fuga iniziale con l’amante, approdò in Egitto (sul perché di questa destinazione le versioni si moltiplicano). Paride portò con sé a Troia un doppio di Elena della “consistenza di una nuvola”. Fu dunque un simulacro ad arrivare a Troia assieme a Paride: la vera Elena viveva in Egitto lontano dalla strage.
Il secondo racconto suggerisce che due grandiosi eserciti si combatterono per dieci anni, con “infiniti lutti”, per un simulacro. Una macabra beffa: quegli splendidi giovani non morivano per la donna più bella del mondo, ma per un’illusione della consistenza di una nuvola.
Perché uomini infinitamente saggi e colti sentirono il bisogno di raccontare una seconda versione? Per spiegarci l’inutilità della guerra? Per dirci che ogni guerra ha bisogno di un pretesto? Per farci capire che tutte le cose hanno un loro doppio?
Oggi, a noi uomini razionali “postutto”, piace pensarla così: che antichi sapienti ci avessero voluto far comprendere l’inutilità di ogni guerra e il bisogno di un pretesto per iniziare lo scontro.
Oggi, noi, uomini razionali “postutto”, sappiamo che il conflitto tra achei e troiani fu una lotta geopolitica e culturale, diventata guerra aperta per conquistare il dominio su un mondo che aveva il suo centro nel Mediterraneo (conflitto da cui entrambi uscirono sconfitti).
Però… però da quando l’uomo è apparso sulla terra c’è sempre stata una guerra. Non c’è stata un’ora senza violenza.
Così inutile, dannosa, tremenda la guerra, ma così inseguita, provocata, bramata. “Guerra igiene del mondo” si declamava nella marcia verso carneficine mondiali.
Un odierno studioso delle menti spiegherebbe che tutti gli esseri umani devono prendere consapevolezza della loro malattia mentale (la guerra) per far sì che il mondo guarisca da questo cancro. Ma ciò non succede. Non è mai successo. Il cancro per ora vince, trionfa di giorno in giorno.
La guerra tra Israele e Palestina è stata spesso descritta come il mitico scontro tra achei e troiani. Ma il problema si complica. Qui non stiamo parlando di aggraziati e spietati politeisti che vivevano in un eterno presente come gli antichi greci, abbiamo di fronte popoli semitici, abramitici, monoteisti e che hanno libri sacri: la parola di Dio.
Si trema solo a pronunciare queste parole: parola di Dio…
Insomma, come dicono gli inglesi, entriamo in “deep water”, acque profonde che sono l’unica cosa che disturba i contemporanei. La futilità e il materialismo sono l’opposto delle acque profonde. Ed infatti, quando affrontate certi temi, il più delle volte vi sentirete rispondere: “vecchio mio, stiamo entrando in acque profonde, meglio smettere”. Sì, meglio smettere, la vita è breve, qualcosa bisogna pur tacere.
Eppure, se un barlume si vuol intravedere, bisogna inoltrarsi in acque profonde, bisogna tornare al Mito e alla Divinità che, scavando, ci suggeriscono verità che noi, poveri epigoni di una civiltà in declino, non riusciamo più a decifrare. Tutto ciò che ci è concesso è inseguire simulacri, vesti della consistenza delle nuvole.
Nel Mito e nella Divinità l’agire degli esseri umani è mosso da Necessità. E ancora oggi chi deve fare i conti quotidianamente con la Necessità ritrova, o forse è meglio dire arriva a sfiorare, il Mito e il Divino.
Lo sentono i soldati israeliani, lo percepiscono i terroristi di Hamas, questi moderni guerrieri comprendono il tragico e terribile ruolo che la Necessità ha riservato loro nell’eterno presente della messa in scena del mondo. E per noi - fatui contemporanei, che viviamo in una società senza Miti, senza Dei, senza Pretesti -, è inconcepibile che questi guerrieri non dicano no al massacro, gettando le armi e abbracciandosi. E se non comprendiamo siamo destinati a soccombere di fronte a popoli che ancora coltivano il Mito, il Divino e la Tragedia che sorgono dalle viscere della terra.
Questi giovani dovranno poi fare i conti con i propri incubi, fatti di corpi lacerati, innocenti massacrati, donne stuprate, codardia, eroismo, salvezza e dannazione. E trascineranno questi incubi nell’aldilà e nel racconto eterno che continuerà a crescere tra chi vive ancora nel riflesso di Mito e Divinità.
Quella guerra infinita ci racconta il Divino, il Mito e il Destino dell’essere umano. Noi, in quello che fu Occidente e stiamo entrando nell’ignoto di una nuova società, non riusciamo più capire queste antiche storie e le rifiutiamo.
A chi ha ancora una parvenza di coscienza resta lo spettacolo di una triste e squallida realtà: vedere ogni giorno poveri ignavi che combattono guerre in simulacro sui canali televisivi, sui giornali, sui social media, nelle università, nelle piazze. Parlano, senza ormai più “logos”, di ragioni storiche, percorrono tempi e spazi, chiosano la burocrazia dell’orrore. Poveri spiriti: nulla sanno, nulla comprendono. Buon per loro, evitano le acque profonde. Non avranno mai nessun incubo, al contrario della gioventù di Palestina. L’unico incubo che rischiano è il calo dell’audience o dei follower, drammatico preludio al tracollo del conto in banca, cioè del Denaro, unico simulacro che si è trasformato in Realtà nell’ormai nostra lunghissima epoca senza Mito e Divinità, ma con sempre maggiori stragi e tragedie.

Ps: mentre il discorso pubblico senza logos occupa ogni spazio, qualcuno, nella propria insularità, piange e prega per quei giovani guerrieri, per i bambini, per le donne e gli innocenti che pagano il sacrificio che dobbiamo a un Dio insaziabile.

(© 9Colonne - citare la fonte)