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direttore Paolo Pagliaro

VALERIO MAGRELLI, QUANDO TUTTO FUMMO

Io cammino fumando e dopo ogni boccata attraverso il mio fumo e sto dove non stavo dove prima soffiavo.

Anche se è disonesto dispiegare una poesia – quella appena letta è stata concepita in cinque versi – e da poveruomini rendere orizzontale ciò che era nato verticale, lo è sempre meno che spiegarla. Eppure tutto spinge, nel leggere Magrelli (anche solo i titoli, se volete) a pensare che una delle lezioni extra-cattedra del suo versificare stia racchiuso in una liquida consapevolezza: quel che è stato cambia sempre stato. Io cammino fumando. Tu cammini fumando. Ma soprattutto Egli fumava. Il giorno che nella chiesa di Santa Maria in Trastevere (Roma), poco più di un anno fa, molta parte del mondo accademico ed editoriale, come pure qualche studente cresciutello, si ritrovò a salutare per l’ultima volta Stefano Giovanardi, che è stato un grande critico letterario ed un amato professore ordinario di letteratura moderna e contemporanea, c’era pure Valerio Magrelli, perché è suo amico. Alla fine, la basilica satura di umanità umida, e contrita e a tratti compostamente ridanciana (mix tipico di Giovanardi), in una giornata di pioggia torrenziale (inutile ricamarci simbolicamente su: pioveva a secchiate), Magrelli salì sul pulpito sacro e parlò. Disse che insieme, lui e Stefano, giocavano a tennis. Che spesso, dopo aver giocato, occorre farsi una doccia, e che Stefano, tanto era impossessato dal gesto, fumava. Fumava sotto la doccia. Io cammino fumando, egli fuma mentre la cipolla butta acqua dopo una partitella sulla terra rossa. E mentre fuori pioveva, nella tragicità d’ogni funerale, qualcuno sorrideva all’aneddoto buffo di Magrelli su Giovanardi. Una benedizione quella incongrua risata, che un altro poeta, Ennio Cavalli, chiamerebbe “cosa poetica”, perché “ogni volta che la parola poesia sembra ardua, ingombrante, noiosa, svagata, o se ricorda troppo da vicino l’aggettivo lirico, coi suoi fumi stordenti, allora conviene passare all’espressione cosa poetica”. E camminando-fumando, si cambia stato. Si sale, si scende, si esala. Io sto dove non stavo – e c’era gente che fumava sotto la pioggia, alla fine delle esequie di Giovanardi. Magrelli poeta segue questo fumare, il residuato della combustione, questa puzza di bruciato di cui sa l’esistenza. Si nasce in un sospiro, e poi si spira. Io cammino fumando.

C’è traccia di questa lettura - e c’è molto altro e molto meglio - in un volume cui fumano le pagine, color rosso-cioccolato, “Il mio corpo estraneo – Carni e immagini in Valerio Magrelli”, del giovane critico letterario e ricercatore dell’Università di Pavia, Federico Francucci (Mimesis edizioni), che proprio Stefano Giovanardi fece laureare alla Sapienza. Già dalla copertina l’autore suggerisce la centralità del corpo, della materia, l’attenzione all’aspetto fisico della vicenda lirica. Il corpo diventa il luogo di ogni compimento, anche metafisico (Giovanardi che s’accende sorriso e sigaretta sotto la doccia è l’immagine perfetta di questo dubbio limite tra aldiqua e aldilà). Francucci mette insieme generi diversi del lavoro di Magrelli alla macchina da scrivere e ciò, molto lontano da essere scolasticamente un errore, valida di nuovo l’assunto corporale delle opere in questione, ritenute in blocco come ‘corpus’. “Mi sembra che uno dei tratti salienti dell’opera di Magrelli stia proprio in una pratica di autocitazione che ha qualcosa del collage e qualcosa dell’impianto e del trapianto”. La cosa allegra di questo naufragio della corporalità, di questo apparentemente inutile inanellare cerchi di fumo, camminando in un tunnel immaginario dove il tempo sfugge e in cui tutti riconoscono meglio l’uscita che l’entrata, è che alla fine, a ben leggere, è il naufragio di un altro a venir raccontato (di un trapiantato, meglio: di un donatore), il naufragar dell’assente verrebbe da dire, se quel corpo estraneo di cui parla Francucci, aveva anche detto: “Io sono ciò che manca/dal mondo in cui vivo,/colui che tra tutti/non incontrerò mai./Ruotando su me stesso ora coincido/con ciò che mi è sottratto./Io sono la mia eclissi/la contumacia e la malinconia/l’oggetto geometrico/di cui per sempre dovrò fare a meno”. E tutti camminiamo fumando, senza però voler sapere non tanto che fumare fa male, ma che è una predica, un trailer, un promo lampo, vizio persino piacevole, di ciò che sarà quando non staremo più dove stavamo quando prima soffiavamo.

Valerio de Filippis

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