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Shlomo Venezia, dall’ultimo gradino dell’Inferno

Shlomo Venezia, dall’ultimo gradino dell’Inferno

Sono caduti insieme, lo stesso primo d’ottobre, come dagli alberi le foglie del breve secolo scorso: il celebre storico Eric Hobsbawm, novantacinquenne, e Shlomo Venezia, ottantanovenne, uno dei pochi superstiti dell’Olocausto. E non erano soldati, come nella fulminate poesia ungarettiana (Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie) ma sentinelle sì, di un passato, quello novecentesco, che ci ha lasciato in eredità non solo splendide liriche, anche alcuni macabri orrori, che lo storico raccontava e Venezia ha vissuto. Shlomo era tra i superstiti delle “Sonderkommando”, le squadre che dovevano smaltire e cremare i corpi dei deportati uccisi nelle camere a gas. E’ stato uno dei pochi sopravvissuti - l’unico in Italia, circa una dozzina nel resto del mondo - di questi corpi speciali; solo uno dei corollari disumani della Shoah. Qualche anno fa ha raccolto le sue memorie in un libro edito Rizzoli, dal titolo “Sonderkommando Auschwitz”, tradotto in 24 lingue. Tanto era divenuto paradigmatico testimone della follia nazista, che Roberto Benigni lo chiamò come consulente per il film “La vita è bella”. Nato a Salonicco, in Grecia, fu prelevato con tutta la famiglia nell’aprile 1944 e deportato presso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, uno dei tre campi principali che componevano il complesso di Auschwitz. Era quello dove la carneficina fu più intensa. Si salvò insieme al fratello, la sorella maggiore (che rivedrà più di dieci anni dopo) e due cugini. I giovani prigionieri forti e robusti come lui venivano assegnati, loro disgrazia, allo spostamento dei cadaveri, ed alla cremazione, come se le SS attraverso di loro si mettessero i guanti, e il crimine ultimo fosse attuato per interposta persona, in funzione deresponsabilizzante. Primo Levi sostenne che il ricorrere ai prigionieri per l’esercizio di quell’incarico, il più abietto, era il modo con cui le SS cercarono di scaricare, o quantomeno condividere, il crimine sulle vittime stesse. Il punto più basso, insomma, che a Venezia non fu risparmiato. Ci mise quarant’anni, non a dimenticare, che non si dimentica mai, ma a riuscire a parlarne. Solo dopo i primi anni Novanta cominciò a raccontare, soprattutto ai più giovani, quanto aveva patito. Per Venezia il Novecento finiva lì, con il racconto, che è una forma ulteriore di liberazione. Ed allora divenne tra i più importanti portavoce della tragedia dell’Olocausto. Tante le reazioni di cordoglio alla sua morte, una per tutte: “Era un uomo straordinario – ha spiegato Walter Veltroni - che aveva vissuto la più terribile delle esperienze, era stato internato nei campi e lì la sua mansione era la più terribile che si possa immaginare, era davvero ‘l’ultimo gradino dell’inferno’, come ha detto lui”.

(© 9Colonne - citare la fonte)