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Elio Pagliarani, la vita in versi della classe operaia

Elio Pagliarani, la vita in versi della classe operaia

Il Novecento muore con un secolo di ritardo e chi ha studiato per esempio sul famigerato "Poeti Italiani del Novecento", di Pier Vincenzo Mengaldo, quante crocette di lapis ha dovuto segnare in questi pochi anni accanto alle date di nascita dell'indice: Giovanni Giudici è morto a maggio dello scorso anno, Andrea Zanzotto ad ottobre, Edoardo Sanguineti nel duemiladieci. Solo per fare tre nomi, tre croci. Sanguineti, le ultime tracce di sé le lasciò a Sanremo, perché in un'edizione di Pippo Baudo, la canzone da lui scritta rimase fuori. Un dantista che non rientra nella linea editoriale del festival, benché parlasse d'amore... L'avesse scritta invece Elio Pagliarani, chissà, forse oggi la canteremmo ancora. Pagliarani, che ci ha lasciato pochi giorni fa, onor del vero anche lui longevo (versificare fa bene), aveva tante cose in comune con Sanguineti. Entrambi furono nelle antologie dello sperimentalismo del secondo Novecento, quello che si riconobbe e si radunò attorno al tavolo del Gruppo 63, promettendo programmaticamente una nuova ondata avanguardista. Troppo lirismo, troppo ermetismo, troppo infingimento nel precedente mezzo secolo, ci voleva novità, verità, attualità: nacquero quindi, sotto questa esigenza, I Novissimi, una antologica con testi, oltre che di Pagliarani, e Sanguineti, di Nanni Balestrini, Antonio Porta e Alfredo Giuliani, che ne fu anche curatore. La novità era prima di tutto nel linguaggio. Trattandosi di poesia, non poteva essere altrimenti. Si legge nell'introduzione, per dar conto della missione che s'inaugurava nel 1961 con tale pubblicazione, che: "Il nostro compito è di trattare la lingua comune con la stessa intensità che se fosse la lingua poetica della tradizione e di portare quest'ultima a misurarsi con la vita contemporanea". Qui nacque la poetica di Pagliarani, e del suo più noto poema, quello de La Ragazza Carla (che per onestà esce un anno prima de I Novissimi, ma insomma siamo lì). Cosa sia stato questo poema, lo ha spiegato magistralmente uno degli ultimi custodi del verbo poetico novecentesco, lo studioso e critico Stefano Giovanardi: "E' poesia-racconto che narra le vicende di una giovane dattilografa milanese la quale - alla vigilia delle elezioni del 1948 - sperimenta, assieme alle molestie sessuali del suo principale, l'alienazione e il dominio di classe". In altre parole, un ritaglio di giornale sussunto in poesia. Una attualità tradotta in versi. Cosa che il Baudo della situazione avrebbe apprezzato, perché anche se stanno morendo tutti i cantori, ci saranno sempre i cantanti, ed una ragazza Carla, sottopagata e palpeggiata dal padrone (oggi, in termini meno marxisti, si direbbe datore di lavoro), c'è sempre, e parla la lingua che gli prestava Pagliarani, quella del suo tempo, fatta di tirannia del dettato, della mai sconvolta dialettica tra proletariato e resto del mondo.

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