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I salotti / 2 - Primedonne sulle scene del Risorgimento

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

I salotti / 2 -  Primedonne sulle scene del Risorgimento

Genova gli ha intitolato il suo più importante teatro, il Carlo Felice, ma proprio qui, alla sua morte, il 27 aprile 1831, il primo re sabaudo costretto a fare i conti con i carbonari ebbe l'onta peggiore alla sua memoria. Nel teatro, tra le dame vestite a lutto, appaiono in sfolgoranti toilette multicolori cinque giovani nobildonne. Dietro quegli abiti color azzurro e rosso c'è la sfida della nobiltà genovese rimasta repubblicana malgrado la feroce repressione post-napoleonica e l'annessione forzata alla real casa sardo-piemontese. Per più sere, con la loro protesta colorata, Teresa Durazzo Doria, Carolina Celesia, Fanny Balbi Piovera, Laura Dinegro ed Anna "Nina" Schiaffino Giustiniani (nella immagine) continueranno ad infrangere l'obbligo del lutto cittadino. Pare che l'idea sia stata della 24enne moglie del barone Giuseppe Schiaffino che, così, crea uno scandalo senza precedenti. Non solo è moglie del console di Genova e per di più gentiluomo da camera dello stesso re Carlo Felice, ma è anche la tenutaria del salotto mazziniano per eccellenza della città e si compiace di sorridere tra le facce tristi dei suoi concittadini in lutto per la morte del re. Ed il suo è un sorriso di vendetta del quale molti sanno la ragione. Nina, infatti, sorride per la morte del re che, due mesi prima, ha condannato Camillo Benso conte di Cavour, con l'accusa di cospirazione politica, al confino nel forte di Bard, in Valle d'Aosta. Nel 1830 Cavour, sottotenente ventenne che frequenta il salotto della inquieta baronessa, da alcuni mesi (gli stessi in cui Mazzini si prepara al suo primo arresto da carbonaro), è diventato il suo amante, entrambi travolti da una passione fisica alimentata dalla comune tensione politica. Un amore che si concluderà in tragedia quando, dopo alcuni anni di incontri clandestini, lei sempre più innamorata dell'ormai disamorato Cavour, il 3 agosto 1835 gli scriverà l'ultima delle centinaia di lettere con le quali aveva tempestato quello che chiamava un "essere soprannaturale": "Se è vero che le nostre anime sono fatte l'una per l'altra si ritroveranno nell'eternità". Ed ancora: "Affronta la tua carriera con onore e produci tutto il bene che è in tuo potere". Scritte queste righe trangugerà del veleno, al quale però sopravviverà. Ritenterà il suicidio tre anni dopo, ancora salvata in extremis. Infine ci riuscirà nel 1841, 34enne, quando si butterà dalla finestra del suo palazzo genovese, la notte del 23 aprile, anniversario del suo primo incontro con Cavour. Lui, esattamente 18 anni dopo, capo del governo sabaudo, il 17 aprile 1859, annuncerà per lettera al nipote la sua intenzione di suicidarsi dopo che l'Austria si era detta favorevole alla proposta di disarmo generale avanzata dall'Inghilterra. Profilandosi quindi una pace che avrebbe portato al tracollo finanziario e alla fine delle mire espansionistiche del piccolo regno sabaudo. Due giorni dopo, invece, arriverà il provvidenziale ultimatum asburgico che Cavour si affretterà a rifiutare aprendo così la seconda guerra di indipendenza. "Uno di quei terni al lotto che accadono una volta in un secolo" dirà Massimo d'Azeglio, che aveva lasciato il posto di capo del governo all'ambizioso Cavour.
Sempre l'ormai ribattezzato teatro "Carlo Felice" di Genova, nel 1851, vedrà poi il soprano Sophie Cruwell, una delle massime star dell'epoca, costretta ad interrompere la sua esibizione sotto i fischi, perché austriaca (anche se si faceva chiamare Sofia Cruvelli). Seguendo così la sorte che, nei giorni infiammati che precedettero i moti del ‘48, alla Scala di Milano, videro contestata un'altra primadonna austriaca, la ballerina Fanny Essler, che tentava di togliere lo scettro della migliore "Giselle" alla rivale italiana Carlotta Grisi che dieci anni prima, danzando 22enne all'Opéra di Parigi, aveva fatto innamorare Théophile Gautier ispirandogli il favoloso libretto di quello che diverrà il più celebre balletto romantico. Carlotta, uno dei tanti miti delle scene italiane che il nostro Ottocento importava all'estero, era inoltre cugina delle sorelle Grisi, grandi interpreti rossiniane: la soprano Giulia (poi legata al tenore Mario de Candia, compagno di studi di Cavour) e la mezzosoprano Giuditta (per la quale, 25enne, nel 1830, Vincenzo Bellini aveva scritto il ruolo di Romeo ne "I Capuleti e i Montecchi" e che influì fortemente sull'immaginario della poetessa Ada Negri, cresciuta nella portineria del suo palazzo milanese, diretta dalla nonna, governante di casa Grisi). Quindi, dai sonori fischi genovesi alla Cruvelli, si era passati ai tumulti repressi dalla polizia. Tra i tanti manifestanti finiti nelle carceri di Palazzo Ducale c'era anche Nino Bixio, il futuro luogotenente garibaldino dei Mille che, nel salotto genovese della bellissima Bianca Rebizzo - dove erano di casa Mameli, Raffaele Rubattino, l'armatore delle navi dei Mille e lo stesso Mazzini in incognito - faceva rabbrividire le signore raccontando di come, nel 1846, naufrago nei mari della Malesia, era scampato prima ad un attacco degli squali e poi agli indigeni che lo volevano costringere a sposare la loro regina. E faceva mormorare i benpensanti per il suo status di zio-amante (nel 1855, dopo 11 anni di un clandestino fidanzamento, Bixio sposerà infatti Adelaide Parodi, figlia della sorella maggiore Marina). Tornando alla Cruvelli, quella ondata di fischi genovesi la resero molto cauta. Lo stesso anno si rese infatti "irreperibile" per non accettare l'ingaggio al Teatro San Carlo di Napoli (in precedenza promesso, imponendo quale condizione la scrittura della poco talentuosa sorella), sollevando il grande disappunto della corte borbonica. D'altronde la soprano austriaca divenne celebre per le sue leggendarie "fughe", non solo vocali. Nell'inverno 1854, all'Opera di Parigi, un Giuseppe Verdi furioso sarà costretto ad interrompere le prove dei Vespri siciliani perché la capricciosa cantante aveva deciso di godersi per un mese, in Costa Azzurra, il suo nuovo amante. A consolare il "cigno di Busseto" il successo, il 26 dicembre, al suo debutto francese, del Trovatore, in cui risuona "Di quella pira". Con questa cabaletta Luchino Visconti apre il film "Senso", facendola risuonare in un teatro scosso da una manifestazione patriottica, rievocando così proverbiali episodi in cui le arie del melodramma accesero gli animi patriottici del pubblico. Il 9 marzo 1842, alla Scala di Milano, un 29enne Giuseppe Verdi impallidisce ascoltando il fragore con il quale platea e loggione accolgono il "Va' pensiero" del suo Nabucco, protagonista la 27enne Giuseppina Strepponi (poi sua compagna per oltre 40 anni), libretto di Temistocle Solera, futuro agente segreto in Francia, cugino di Laura Mantegazza, grande amica di Garibaldi. Pensa che quel boato sia di disappunto e invece è il suono del suo trionfo. "Viva Verdi" (acronimo di Viva Vittorio Emanuele re d'Italia) diventa un grido sedizioso, il cappello dell'Ernani quello degli insorti delle Cinque giornate di Milano, la musica verdiana la colonna sonora del Risorgimento (ma ciò non impedirà alla Traviata, nel 1853, di debuttare con un clamoroso fiasco, "riparato" l'anno dopo a Venezia dalla magistrale interpretazione della 20enne Maria Spezia...). Nel pubblico che acclama la "prima" del Nabucco c'è anche la contessa Clara Maffei, anima del più famoso dei salotti antiaustriaci milanesi (e di tutto il Risorgimento) nel quale Verdi entra quindi di diritto, accanto a D'Azeglio e Manzoni, Prati, Carcano, Nievo. Diventando intimo amico della contessa per la quale, nel 1846, farà da testimone nella sua causa di separazione dal marito Scipione Maffei, ormai legata al nuovo compagno, il giornalista Carlo Tenca. Una separazione che segna la fine del salotto letterario giovanile della contessa (l'unico che, a Milano, nel 1838, aveva accolto Liszt insieme alla sua bionda amante, la contessa divorziata Marie d'Agoult che, esibendo uno scandaloso pancione, stava per dare al musicista il secondo dei tre figli della loro tempestosa unione) e l'aprirsi di quello politico, che raccoglie il testimone dei salotti promossi dalle dame milanesi anti-austriache degli anni Venti, Teresa Casati Confalonieri (il cui palco alla Scala era un sicuro rifugio per ogni patriota), Matilde Dembowski Viscontini, ispiratrice di "Dell'amore" di Stendhal, Bianca Milesi, Maria Frecavalli, la mazziniana Teresa Berra Kramer. Il salotto di Clara Maffei - spodestando quello repubblicano di Giuseppina Morosini, nipote di Emilio Morosini, eroe delle Cinque Giornate, e quello letterario di Eugenia Litta Bolognini, futura amante del principe Umberto e musa di Arrigo Boito, cosi "potente" da permettersi di ignorare la presenza di Garibaldi alla Scala -, diventa uno dei motori di propulsione delle idee risorgimentali. Il suo indirizzo, in via Bigli 21, diventa leggendario, come i soffici sofà, i fiori, i quadri di Hayez (che eterna in un ritratto il dolcissimo sorriso della padrona di casa: lo stesso con il quale spegneva le diatribe politiche che si accendevano tra i suoi ospiti). Qui, il 5 giugno 1859, annessa la Lombardia al Piemonte, si balla la Marsigliese e la contessa esibisce la foto con ringraziamento autografo di Napoleone III. Ma di lì ad un anno aprirà il salotto milanese della 26enne pianista Vittoria Cima, educata a Parigi. E' il nuovo che avanza (lo frequentano industriali come Pirelli, giornalisti come Torelli Viollier, fondatore del Corriere della Sera, artisti come Giuseppe Giacosa e Federico De Roberto, gli "scapigliati") e il salotto Maffei inizia il suo declino. Anche se conserverà un innegabile prestigio. Ancora nel 1877 l'ormai 63enne contessa Clara (morirà 9 anni dopo) organizzerà due serate di grido per accogliere, rispettivamente, la 56enne attrice Marie Charlotte Eugenie de Plundett (che nel 1852 era stata la prima interprete della Signora delle Camelie di Dumas) ed il 43enne soprano Teresa Stolz. Manzoni, il "monumento" del salotto è morto da 4 anni ma già da tempo, anziano e malato, aveva rinunciato a frequentarlo ed era Clara che si recava a visitare l'amico, ogni domenica mattina. E, se non fosse morto da 24 anni, il musicista di punta del salotto Maffei, oltre a Verdi, sarebbe stato Vincenzo Bellini. Il suo celebre duetto "Suoni la tromba, e intrepido", che conclude il secondo atto dei Puritani, nel 1835, al debutto a Parigi, era diventato l'inno dei fuoriusciti italiani che si riunivano nel salotto di Cristina di Belgioioso, la "principessa rivoluzionaria" che coccolava con la sua raffinata civetteria il compositore catanese e che, quando Bellini improvvisamente morì nel settembre dello stesso anno, a 34 anni, per un'infezione intestinale, chiese ad altri artisti assidui del suo cenacolo - quali Liszt, Chopin, Thalberg, Herz, Czerny - di comporre sei variazioni per pianoforte sul tema della cabaletta belliniana. Da cui nacque l'Hexaméron. Uno dei tanti gialli storici sostiene che Bellini, quella sua infezione mortale, l'aveva contratta nell'unico salotto milanese filo-austriaco: quello della sensuale russa Giulia von Pahlen, nipote del principe Potemkin, sposata al conte Samoyloff, figlia naturale dello zar Alessandro I, amante del suo successore Nicola I, che costrinse la contessa a dare i suoi beni in amministrazione ad una banca milanese quando seppe quanto avesse speso nel 1832 per organizzare una strabiliante festa. Ma la contessa amava stupire. Uno dei gelati più ricercati dalla nobiltà milanese era quello che un pasticcere sosteneva fosse fatto con la panna con cui lei faceva il bagno. Gioacchino Rossini, che chiese l'autopsia sul corpo dell'amico Bellini, il 2 ottobre 1835 scrisse a Niccolò Tommaseo: "Sparato (aperto il cadavere, ndr), gli trovarono del mercurio ne' visceri, mercurio debito, dicono, alle carezze di una russa da lui carezzata a Milano". Bellini era stato infatti l'amante della contessa russa, che aveva anche elargito le sue grazie al compositore Giovanni Pacini, rivale di Bellini. Nacque quindi il sospetto che la contessa avesse avvelenato Bellini per favorire il nuovo amante. Fatto sta che anche il conte Samoyloff morì prematuramente ed un altro suo marito, il baritono Pery, morì per una indigestione di frutta che fece girare il detto "Pery perì per i peri". La salma di Bellini, restituita dalla Francia all'Italia nel 1876, fu scortata fino a Catania dal deputato catanese Luigi Gravina. E cinque anni dopo, da prefetto di Roma, dovette affrontare il difficile compito di scortare la salma di Pio IX quando una folla inferocita di romani tentò di gettare il feretro nel Tevere. Sua moglie, la colta livornese Costanza Bougleux, tiene il più famoso letterario del tempo nella neonata capitale italiana, con ospiti Carducci, Verga, il francese Verne, la stessa regina Margherita. Si ricorda anche che il tema del belliniano "Suoni la tromba" ispirò anche Verdi per l'inno militare - intitolato appunto "Suona la tromba" -, che Giuseppe Mazzini gli chiese di musicare nel 1848 dopo avere ascoltato e storto il naso (da fine musicofilo quale era) per la marcetta scritta un anno prima, in una notte settembrina di "furore creativo", dal genovese ex tenore Michele Novaro, su versi di Goffredo Mameli: ossia "Fratelli d'Italia". In realtà Mazzini - che aveva conosciuto Verdi nel 1847, a Londra, dove il compositore aveva presentato il suo "I Masnadieri", accolto con simpatia dalla regina che invece mal sopportava l'esiliato genovese - aveva chiesto a Verdi di "riarrangiare" "Fratelli d'Italia". Ma andò invece che Verdi musicò i nuovi versi che Mameli aveva scritto, nell'agosto 1848, per protesta contro l'armistizio di Salasco: "Suona la tromba, ondeggiano le insegne gialle e nere. Fuoco, per Dio, sui barbari, sulle vendute schiere. Già ferve la battaglia, al dio dei forti osanna. La baionetta in canna, è l' ora del pugnar...". Ne nacque la peggiore partitura mai scritta da Verdi. Che non a caso, consegnandola a Mazzini, aveva scritto: "Fatene quell'uso che credete: abbruciatelo anche se lo credete degno", "possa quest'inno, fra la musica del cannone, essere presto cantato nelle pianure lombarde". Si ricorda un altro episodio del Verdi "politico": il 27 gennaio 1849, ad accompagnare i primi vagiti della Repubblica romana, manda in scena al Teatro Argentina di Roma "La battaglia di Legnano", che solleva profluvi di applausi per i versi: "Chi muore per la patria, alma sì rea non ha". Lo stesso Verdi scriveva in quel periodo al librettista Piave, arruolato a Venezia: "Non c'è né ci deve essere che una musica grata alle orecchie delli Italiani nel 1848. La musica del cannone!...". E la versione italiana dei suoi Vespri Siciliani, in scena nel 1865 dopo il debutto parigino, sarà poi affidata ad un altro poeta che combatté sempre in difesa della Repubblica di Venezia: Arnaldo Fusinato, marito della poetessa Erminia Fuà Fusinato. Ma, sulle barricate di Venezia, accorrono nel 1848 anche il 46enne Gustavo Modena e la 31enne moglie Giulia Calame (che, "fiera gonfaliera", anima un battaglione di donne in cui spiccano Elisabetta Michel Giustinian e Teresa Perissinotti, moglie di Manin). Giulia, ricca ginevrina, aveva sfidato la famiglia per sposare l'attore veneziano, fervente mazziniano e lo aveva seguito sulle strade dell'esilio che alternava ai trionfali tour teatrali ed appunto alle battaglie (in questo accomunato alla carriera del tenore bolognese Eliodoro Specchi che, a 46 anni, al culmine della carriera, si ritirò dalle scene per combattere con Garibaldi, che lo chiamava "mio caro Spech..."). Si deve a Modena l'introduzione in Italia di uno stile recitativo realista, senza roboanti gridi e lamenti. Il suo alterego femminile era la friulana Adelaide Ristori i cui spettacoli finivano spesso interrotti dalla polizia. Debutta con grande successo nel 1836, a 14 anni, nella Francesca da Rimini di Silvio Pellico e diventa prima attrice nella Reale Compagnia Sarda, 18enne, quando si ritira dalle scena Carlotta Marchionni, anch'essa celebre attrice di fama anti-austriaca. Una sua recita, a Torino, l'11 gennaio 1821, è la scintilla dei moti degli studenti dopo che quando quattro di essi vengono arrestati in teatro con un berretto frigio rosso con fiocco nero (i colori della carboneria) e il giorno dopo si scatenano gli scontri all'università e la città finisce sotto assedio. La Marchionni, ammirata da Stendhal e Madame de Stael, è stata la prima interprete della Francesca da Rimini di Pellico. Lo scrittore si era innamorato della bionda cugina 25enne dell'attrice, Teresa, ai tempi in cui lo scrittore frequenta casa Marchionni, nel 1820, a Milano, insieme al musicista carbonaro Pietro Maroncelli, innamorato a sua volta di Carlotta Marchionni. Pellico, istitutore del conte Luigi Porro, l'anno prima, aveva peraltro amoreggiato pure con la marchesina e musicista Cristina Archinto Trivulzio. Tanto che, si sostiene, queste due delusioni d'amore avrebbero spinto lo scrittore all'affiliazione nella carboniera, su insistenza di Maroncelli. Adelaide Ristori, nel 1856, già sposata al marchese Giuliano Capranica, che si era innamorato di lei dopo averla vista recitare a Roma nel teatro Metastasio, di proprietà del padre, rappresenta a Livorno la commedia La dama del popolo di Chiossone, aggiungendo una battuta propria che suscita l'entusiasmo del pubblico: "Mio padre sparse il suo sangue per l'onore delle armi italiane. Vi è un Dio per il popolo". Le autorità censurano quinti il testo e la espellono; alla stazione viene però acclamata a furor di popolo. Due anni dopo, a Venezia, viene ancora espulsa. Nel 1861, quando ormai si spostava per l'Europa a bordo di un lussuoso vagone ferroviario personale, Cavour le scrive: "Continui a Parigi il patriottico Suo apostolato... Io applaudirò in Lei non solo la prima artista d'Europa, ma il più efficace cooperatore nei negozi diplomatici". Curiosamente si racconta che Cavour cercò di frenare la caduta in disgrazia dell'attrice torinese Laura Bon, una cugina di Adelaide Ristori che, divenuta amante di Vittorio Emanuele II nel 1848, gli aveva dato, nel 1853, una figlia, Emanuela di Roverbella, concepita nel castello di Moncalieri nel quale il monarca l'aveva condotta a vivere facendole abbandonare le scene. La bambina sarà uno dei tanti figli non riconosciuti del monarca: nel 1858 una figlia dalla baronessa Vittoria Duplessis; lo stesso anno, da una maestrina di Frabosa, Donato Etna (celebre comandante alpino della conquista del Monte Nero, cui si deve l'introduzione nell'esercito della divisa grigio verde); nel 1861 da Virginia Rho, un maschietto, Vittorio Emanuele, seguito poco dopo da un'altra bambina, Pia. Laura Bon (sorellastra di quel Luigi Bellotti-Bon che, dopo aver calcato le scene ad inizi anni ‘40, ventenne, nella compagnia di Gustavo Modena, divenne il più importante capocomico dell'Ottocento, per morire suicida a Milano, nel 1883, travolto dai debiti) era stata allontanata dal castello di Moncalieri per le sue scenate di gelosia. Era infatti entrata in scena con le sue prepotenti forme Rosa Vercellana, la Bela Rosin, figlia analfabeta del tamburo maggiore dell'esercito piemontese, cui, nel 1859, dopo una decina di anni di incontri clandestini, Vittorio Emanuele II aveva concesso i titoli di contessa di Mirafiori e di Fontanafredda. E Cavour, sostenendo in un primo momento la ripudiata Laura, facendole avere una pensione, investendola di fantomatiche missioni diplomatiche, cercò quindi di scalfire l'influenza di Vercellana, anche a lui non gradita. Ma la passione del re per quella che sarebbe diventata sua moglie morganatica resistette ad ogni scandalo. E ben presto Laura Bon fu abbandonata ad un destino di attricetta di quart'ordine a Firenze, la figlia Emanuela destinata a morire prematuramente 37enne. Ma nel "carnet" di Vittorio Emanuele II si ricorda anche un'altra attrice: Emma Allis, in arte Emma Ivon, figlia del pittore mazziniano Alessandro Allis che, con la madre vedova, nel 1865 si ritrova nella Firenze divenuta nuova capitale del Regno e che, nella esuberanza dei suoi 14 anni, diventa amante del re 45enne, vedovo da 10 anni. E, anche se Emma prese a darsi arie da regina, la discussa liason durerà per 9 anni. Dopodiché Emma si trasferirà nella Milano in cui fa furore il Teatro Milanese (tanto che nel 1876 si inventò un telone pubblicitario che calava tra un atto e l'altro) e verrà scritturata da Cletto Arrighi per diventare la prima donna della compagnia accanto ad Edoardo Ferravilla, l'inventore della figura comica del sur Pedrin. Finirà la carriera con uno degli scandali rosa più clamorosi dell'epoca: arrestata nel 1879 per una millantata maternità con furto di bambina e ricatto al presunto padre, poi risultata una accusa falsa. Adelaide Ristori, in repertorio, teneva le opere "scomode" della drammaturga forlivese Efigenia Gervasi, sposa 19enne, nel 1829, del patriota Tommaso Zauli Saiani, altra coppia costretta sulle strade dell'esilio. E per Forlì, quando Giorgina Craufurd, la moglie di Aurelio Saffi aveva impiantato negli anni ‘70 dell'Ottocento uno dei maggiori ritrovi mazziniani, la Villa Saffi di San Varano, passa anche la sua grande amica Giacinta Pezzana, l'attrice femminista torinese, regina bohèmmienne della recitazione tragica di secondo Ottocento. E ancora Forlì, nel 1877, dà i natali a Maria Farneti, che sarà uno dei soprano più apprezzati del ‘900, scoperta adolescente da Pietro Mascagni che dirigeva il liceo musicale di Pesaro, alla quale Maria era iscritta, e che la volle, 22enne, interprete al debutto, a Torino, dell'Iris. Un anno dopo, al Comunale di Bologna, Maria avrà accanto, in quella stessa parte, Enrico Caruso e sei anni dopo Puccini la chiamerà per impersonare Madama Butterfly alla prima di Napoli e due anni dopo a Roma. Finendo per rubare il podio della migliore interpretazione della conturbante geisha alle altre due massime soprano d'agilità dell'epoca: la veneziana Rosina Storchio e la napoletana Emma Carelli.(Marina Greco )

 

 

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